Dlgs 231: Enti e soggetti attivi nei reati

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Indice dell'articolo

1. Enti e soggetti attivi dei reati

L’art. 5, rubricato ‘Responsabilità dell’ente’ insieme ai successivi 6 e 7 rappresentano il cuore della parte generale di questo nuovo sistema, disciplinando i criteri di imputazione della responsabilità degli enti. In particolare l’art.5 specifica i criteri di imputazione della responsabilità sul piano oggettivo, attraverso il riferimento alla posizione qualificata dell’autore del reato e all’interesse o vantaggio dell’ente, mentre gli artt. 6 e 7 specificano detti criteri sul piano soggettivo, “delineando un modello di organizzazione dell’ente per la prevenzione degli illeciti e sottintendendo una colpa in organizzazione in caso di deficienze al riguardo” (Relazione al D.lgs 8 Giugno 2001 n.231, 3, 3.).
Analizzando più da vicino l’art. 5, possiamo procedere ad una schematica tripartizione delle conditiones sine quae non perché si possa parlare di responsabilità dell’ente.
 

A. Deve verificarsi un fatto criminoso (di cui ai successivi art 24, 25, 26; cfr) consistente:

a) in una condotta posta in essere da un soggetto ‘in posizione apicale’ e cioè di:
– chi esercita funzioni di rappresentanza dell’ente;
– chi esercita funzioni di amministrazione o di direzione dell’ente;
– chi esercita una delle funzioni predette presso un’unità organizzativa (dell’ente) dotata di autonomia finanziaria e funzionale;
 
b) in una condotta posta in essere da un soggetto ‘non in posizione apicale’ e cioè di:
– chi si trovi sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti precedenti.
 

B. Deve trattarsi di fatti criminosi (sempre inclusi ne catalogo di cui sopra) commessi dall’autore del fatto ‘nell’interesse dell’ente’ o ‘a vantaggio dell’ente’.

C. Non deve trattarsi di fatti criminosi commessi dall’autore nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.

In sostanza, quindi affinché sussista la responsabilità amministrativa derivante da reato, devono ricorrere tre condizioni, e cioè che il reato sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente, che gli autori siano persone fisiche qualificate, e che tali soggetti non abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. Inoltre i reati commessi devono rientrare in categorie specifiche: indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche e frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico, concussione e corruzione, violazione della fattispecie, prevista ex novo dallo stesso decreto, di inosservanza delle sanzioni interdittive, della quale risponde chiunque, nello svolgimento dell’attività dell’ente, cui sia stata applicata una sanzione o una misura cautelare interdittiva, trasgredisce agli obblighi o ai divieti inerenti a tali sanzioni o misure.
 

2. Soggetti in posizione apicale.

La prima categoria di persone fisiche che fanno sorgere la responsabilità dell’ente è costituita da persone che rivestono una posizione di vertice nel ambito della società. Per ciò che concerne questa prima cerchia di soggetti attivi, il legislatore ha preferito, ad una rigida classificazione, una formulazione elastica che tenesse conto della funzione vera e propria esercitata; ha fatto riferimento sia a ‘persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o di direzione dell’ente, o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale’, nonché  ‘a persone che esercitino, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso’.
 
Tale scelta si giustifica in relazione all’eterogeneità degli enti e delle persone giuridiche interessate all’applicazione delle disposizioni di cui alla legge 231/2001 e anche in relazione alla volontà di consentire l’applicazione della normativa in tema di responsabilità da reato delle società in relazione alle funzioni di fatto svolte dalle persone che hanno commesso i singoli reati nell’interesse o a vantaggio della società.
 
L’intenzione del legislatore è infatti quello di limitare l’applicazione della normativa de quo non solo a quanti legalmente e conformemente a titoli giuridici esercitino le funzioni suddette, ma anche a quanti di fatto rivestono i medesimi ruoli nell’ambito della società. Sarà pertanto possibile applicare le sanzioni di cui al D.lgs in esame ancorché uno degli illeciti previsti dagli articoli 24, 25, e 26 del testo siano commessi da coloro che esercitano in via di fatto un penetrante dominio sull’ente o su una sua unità organizzativa dotata di autonomia funzionale e finanziaria.
 
In ogni caso la norma si riferisce ai soggetti che legittimamente rivestono e svolgono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente, il riferimento è chiaramente alla posizione dell’amministratore unico o delegato, e comunque più in generale ai componenti del relativo consiglio, nonché ai c.d. direttori generali, come considerati dall’art. 2396 c.c.
 
Per quanto concerne il caso della delega di funzioni, posto che il delegante resta comunque responsabile, ai fini di inquadrare se l’illecita attività del delegato si collochi nell’art.6 (soggetti in posizione apicale) o nell’art.7 (soggetti sottoposti), si deve sicuramente valutare caso per caso il tipo di delega conferita. Nell’ipotesi che essa abbia per oggetto una particolare funzione di amministrazione o direzione dell’ente è condivisibile la tesi secondo cui i soggetti in questione sono annoverabili tra quelli dell’art. 6.
 
Per quanto concerne invece i soggetti che rivestono le medesime funzioni in una unità organizzativa dell’impresa dotata di autonomia finanziaria e funzionale (come ad esempio sedi secondarie, filiali,ecc..), tale previsione si inquadra nell’ambito di una prassi sempre più frequente nelle grandi realtà aziendali, nelle quali vengono previste figure diverse dall’amministratore o dal direttore generale dotate in ogni caso di rilevante autonomia gestionale.
 
Già il legislatore aveva conosciuto tale prassi con la normativa in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro di cui al d.lgs 626/1994 che all’art.2 lett. b) richiama la figura del direttore dello stabilimento quale possibile destinatario delle sanzioni, definendo lo stabilimento come l’unità produttiva  ‘finalizzata alla produzione di beni o servizi, dotata di autonomia finanziaria e tecnico funzionale’.
 
Mentre sono sicuramente ricompresi in tale categoria le figure dei liquidatori, non vi fanno invece parte quella dei sindaci, in relazione alla funzione loro attribuita di controllo dell’operato degli amministratori.
 

3. Le persone sottoposte alla direzione/vigilanza altrui e nuove figure del diritto del lavoro.

La lettera b) dell’art.5 del testo legislativo in esame inserisce fra i possibili soggetti la cui condotta può determinare la responsabilità amministrativa dell’ente coloro i quali sono sottoposti alla direzione o vigilanza dei soggetti in posizione apicale: concretamente trattasi dei dipendenti della società, anche se il termine “persone sottoposte” viene in essere avendo riguardo alle ormai molteplici realtà del diritto del lavoro, sempre più evolute ed aggiornate.
 
Si potrebbe far riferimento alle varie tipologie di lavoro subordinato che sono state enucleate dalla legislazione economica accanto a quella classica di “lavoro subordinato” così come recepita dal codice civile, come ad esempio il lavoro intermittente, il lavoro ripartito, il lavoro a progetto ed occasionale, ecc… Un soggetto infatti può essere sottoposto all’altrui direzione/vigilanza senza che però esso sia inquadrabile formalmente in una posizione di lavoro dipendente.
 
La loro inclusione nella previsione normativa in esame si spiega alla luce del fatto che anche questi soggetti hanno la possibilità di agire illecitamente per conto e nell’interesse della società ed anzi, proprio in considerazione delle sempre maggiori competenze che nell’ambito dell’attività aziendale sono attribuite oggi a soggetti diversi, l’intera disciplina in esame sarebbe risultata incompleta senza la previsione in esame.
 
Affinché si possa configurare una responsabilità in capo all’ente in relazione alla commissione di reati da parte di soggetti in posizione subordinata (vale a dire sottoposti alla vigilanza), è necessario che si verifichino le seguenti condizioni:
– che la persona sottoposta alla direzione/vigilanza abbia commesso uno dei reati previsti dalla normativa;
– che tale soggetto abbia commesso il reato nell’interesse e a vantaggio dell’ente
– che i soggetti cui spettano gli obblighi di direzione e vigilanza (soggetti in posizione apicale) non abbiano adempiuto a tali obblighi.
 
Affinché l’ente possa ritenersi responsabile, l’art 7 del d.lgs 231/01 prevede alcuni requisiti soggettivi:
– al primo comma, stabilisce che  ‘l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza’;
– al secondo comma – che concerne prevalentemente le grandi realtà aziendali – prevede che non sussiste in ogni caso responsabilità in capo all’ente qualora esso abbia predisposto, e attuato in maniera efficace, un modello organizzativo per la prevenzione dei reati (anche Trib. Milano Sez XI, ord. 14 dicembre 2004) determinando di conseguenza un’inversione dell’onere della prova;
– il terzo comma, con riguardo ai modelli organizzativi anzidetti dispone che essi debbano prevedere ‘misure idonee a a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio’.
 
Inoltre, sempre con riferimento a questi modelli organizzativi, l’ente deve operare delle verifiche periodiche con l’obbiettivo di aggiornamento sia riguardo alla scoperta di violazioni che riguardo a possibili modifiche della struttura interna; affinché tale modello organizzativo sia efficace il quarto comma la norma prevede l’affiancamento, al modello stesso, di un sistema disciplinare atto a garantirne l’efficacia.
 
Come verrà di seguito diffusamente argomentato, modelli organizzativi devono essere adottati dall’ente ex ante, proprio per garantire un controllo effettivo in ordine ai presupposti dell’illecito amministrativo, dovendo rispondere alle esigenze descritte al secondo comma dell’art.6: individuare le aree sensibili di attività nelle quali può aversi la commissione di un reato presupposto e nelle quali possono annidarsi criticità funzionali dell’apparato organizzativo della società; prevedere protocolli diretti alla formazione e alla attuazione delle direttive dell’ente in chiave preventiva; programmare la gestione delle risorse finanziarie in modo da escludere il rischio di commissioni di illeciti; predisporre oneri informativi nei confronti dell’organismo di controllo, deputato a verificare l’osservanza dei modelli; introdurre un sistema sanzionatorio interno in caso di violazione delle regole dei modelli.
 

4. L’interesse o il vantaggio dell’ente.

Occorre sottolineare che la responsabilità dell’ente sorge solo per quei reati tassativamente elencati agli artt. 24, 25, 26 (delitti contro la Pubblica Amministrazione ed il patrimonio, delitti contro la fede pubblica, reati societari, delitti aventi finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, delitti gravi contro la personalità individuale, reati di omicidio colposo e lesioni gravissime commessi con violazione delle norme anti-infortunistiche, sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro), e solo se il reato presupposto sia stato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, come afferma l’art. 5 comma 1.
 
Come spiega la Relazione al decreto ministeriale, si tratta di ‘una clausola di chiusura ed esclude la responsabilità dell’ente quando le persone fisiche (siano esse apici o sottoposti) abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi’. La norma stigmatizza il caso di rottura dello schema di immedesimazione organica; si riferisce cioè alle ipotesi in cui il reato della persona fisica non sia in alcun modo riconducibile all’ente, perché non realizzato neppure in parte nell’interesse di questo. Si noti che, ove risulti per tal via la manifesta estraneità della persona morale, il giudice non dovrà neanche verificare se la persona morale abbia per caso tratto un vantaggio.

Il criterio del vantaggio obbiettivo a favore dell’ente deve ritenersi sussistente in presenza di due circostanze, concepite come alternative dal legislatore: da una parte, si parla di una condotta illecita concepita e voluta dal soggetto attivo nell’interesse dell’ente; dall’altra invece la norma configura la possibilità che, a prescindere dalla volontà del soggetto agente, la condotta abbia comunque determinato, sotto il profilo delle risultanze obbiettive un vantaggio per la persona giuridica (Cass. pen. Sez II n.3615/2006).

Soffermandoci adesso sulle qualità che l’interesse e il vantaggio devono avere, non c’è dubbio che il primo, in quanto valutazione ex ante di un risultato (positivo), deve essere concreto, cioè non eventuale o non apprezzabile astrattamente. Inoltre la valutazione circa la sussistenza dell’interesse deve essere compiuta dal giudice con riferimento al momento in cui la condotta è stata posta in essere dal soggetto attivo.

A proposito invece del vantaggio, implicando un risultato utile, questo deve essere apprezzabile concretamente, con riguardo alle conseguenze per l’Ente nel mercato e nella società; pertanto il vantaggio, al contrario dell’interesse, dovrà essere ricercato ed individuato ex post, qualificandolo come un beneficio obbiettivamente conseguito.

Riguardo alle qualità che devono avere, la norma non richiede espressamente che l’interesse e il vantaggio abbiano un contenuto immediato e diretto di natura economica, anche se questo potrà essere frequente. Vale a dire che l’interesse dell’ente potrebbe anche non essere suscettibile di valutazione economica seppur riguardante l’attività, come nei casi in cui un soggetto attivo pone in essere una condotta illecita ai fini di un miglioramento della posizione della società sul mercato.

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